THE CORPORATION

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Che impressione vi farebbe sapere che le società imprenditoriali, le multinazionali, ossia quelle corporazioni che ricavano enormi profitti cercando di convincerci della loro necessaria esistenza per il progresso economico e civile del pianeta, ad un test psicologico somministrato usualmente agli individui, risultassero psicopatiche? E’ quello che Mark Achbar e Jennifer Abbott, insieme al professore e saggista Joel Bakan autore di "The Corporation: The Pathological Pursuit of Profit and Power" da cui è tratto il documentario, hanno rilevato per mezzo del test standard DSM-IV adottato dal World Health Organization (Organizzazione Mondiale della Salute).
Come è d’obbligo per giungere ad una diagnosi bisogna ricostruire l’anamnesi, ossia la storia personale di ogni individuo, dalla nascita sino al momento dell’analisi; per questo il documentario affronta i motivi, i quando, i perché della nascita delle corporazioni, cosa erano e cosa sono diventati col tempo, quali esperienze hanno determinato i cambiamenti, e perché sono giunte a divenire quell’essere egoista, incapace di sentimenti, distruttivo che sono oggi.
Ma in che modo si possono esaminare come se fossero individui sistemi quali le corporazioni? Secondo una legge statunitense che si basa sul 14° emendamento - nato dopo la Guerra Civile per rendere legale e proteggere la libertà degli afroamericani e che gli uomini d’affari hanno sfruttato ad uso e consumo dei propri interessi - le corporazioni sono considerate delle persone legali. D’altronde molte multinazionali, come afferma Naomi Kleine, hanno costruito la propria fortuna non vendendo prodotti ma marchi, una precisa volontà di porsi al possibile utente con tutte quelle caratteristiche caratteriali rapportabili ad una personalità umana, al punto da raggiungere la presunzione di dare al marchio un valore etico, il simbolo di una filosofia di vita.
Diviso in capitoli, The Corporation non tralascia nessuno degli argomenti fondamentali per individuare le caratteristiche e le nefandezze di multinazionali come la Monsanto, Nike, Shell, e così via, grazie a numerosi contributi tra cui quello dell’economista Premio Nobel Milton Friedman, della spia industriale Marc Barry, del broker Carlton Brown, del professore di Psicologia alla Columbia University e consulente per l’FBI in casi di psicosi Robert Hare, di imprenditori, di Noam Chomsky, Naomi Klein, Michael Moore, Vandana Shiva, Jeremy Rifkin, e molti altri, alcuni dei quali non sempre in accordo con l’analisi degli autori. Ed è proprio questo aspetto a fare di The Corporation un documentario completo, equilibrato, scientifico si potrebbe dire, un documentario che non ha alcuna intenzione di essere un film ma soprattutto un grande e portentoso reportage con tanto di scoop, di interviste che inquietano lo spettatore, anche il meglio informato, poiché il potere dell’immagine di un uomo, un broker, il quale confessa che il primo pensiero che ha avuto alla notizia della strage al World Trade Center è stato rendersi conto di quanto i propri clienti investitori in oro, e quindi lui stesso, si sarebbero potuti arricchire - cosa che si è puntualmente verificata - non ha lo stesso potere d’impatto delle parole. Siamo o non siamo nell’era delle immagini?

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Tra tante informazioni, casi emblematici, considerazioni su quanto la vita di ognuno di noi ogni giorno sia influenzata e determinata dalle corporazioni grazie alla complicità di strumenti che loro stesse hanno contribuito a creare e spesso di loro diretta proprietà - agenzie pubblicitarie, media -, su quanto potere esse hanno nel determinare la politica interna ed estera, emergono isole di coraggiosa lotta. A volte queste lotte sono riuscite a determinare una reazione positiva, un cambiamento di comportamenti, ma il psicopatico conclamato è furbo, sa come mascherare il suo ego espanso con moine convincenti per poi tornare appena possibile quello che é realmente, uno psicopatico, un essere pericoloso per la sopravvivenza della collettività. Di più, questo "mostro" psicopatico a differenza dell’essere umano affetto dalla stessa psicosi non ha giustificazioni da rivendicare, nessun trauma infantile, nessuna sofferenza da sublimare, solo una fredda e meccanica sete di profitti e di potere.
All’esame diagnostico segue la ricerca di una prassi da adottare per curare il paziente, e al contempo, se esso risulta pericoloso per gli altri, trovare il modo di arginare ed eliminare i mezzi tramite cui esso nuoce alla collettività. Se per cercare una cura un esempio da perseguire può essere quello di Ray Anderson della Interface - il quale, resosi conto delle terribili conseguenze sull’ambiente dell’operato della propria industria, ha deciso di renderla sostenibile investendo milioni di dollari e cercando di convincere altri industriali a fare altrettanto -, per quanto riguarda i modi per difendersi da chi si rifiuta di curarsi il primo passo è contrastarlo con l’azione pacifica e costruttiva, anche se a volte chi si contrasta usa la violenza. Dalle lotte in Bolivia contro la privatizzazione dell’acqua - che lasciarono sul terreno morti e feriti -, a quelle in India contro la Monsanto per le sementi, fino a giungere ad Arcata, California dove la comunità cittadina ha deciso di scegliere quante catene commerciali possono esserci sul proprio territorio, la conclusione di The Corporation non poteva essere più chiara. Ma non è tutto ed è l’ormai famoso Moore ad aggiungere un concetto non certo nuovo ma troppo spesso dimenticato, nel potere c’è una falla chiamata avidità; sono anni che Moore sfrutta gli interessi dei grandi media grazie agli utili che il suo lavoro procura agli avidi, a cui non interessa sapere cosa vendono basta che il prodotto faccia soldi. Lì, dentro questa falla, Moore lavora di fino informando, sollecitando alla riflessione, smuovendo le coscienze di un opinione pubblica spesse volte altrimenti ignara, e lo può fare perché il pubblico di Moore aumenta a vista d’occhio.

Ed a proposito di Moore. Si è detto che i grandi successi dei documentari del filmmaker di Flint abbiano aperto una breccia nel chiuso sistema della distribuzione, e questo bisogna riconoscerlo, ma a scanso di equivoci The Corporation non ha nulla a che vedere con lo stile di Moore – anche se è tra gli intervistati, e non poteva essere altrimenti, e dona qualche chicca del suo “repertorio” -, è scarsamente ironico, gli autori non appaiono mai, ricorda molto da vicino i classici documentari televisivi la cui ricerca estetica è praticamente assente, eppure scorre senza avvertire un momento di stanchezza, ti prende come il migliore dei thriller, poiché la vittima che cerca di salvarsi in pieno classico deadline siamo noi, o almeno la maggioranza di noi.

© 2004 reVision, Emanuela Liverani

 

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